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Pace difficile

Giorgio Colli

Articolo pubblicato su La Stampa di Torino il 6 ottobre 1940.

Scheda catalogo

La Conferenza di Londra si è chiusa nel disagio, ed i suoi ultimi giorni, anzi, si sono come trascinati, nello stato d'animo che si ha di fronte ad un'inconcludenza prevista. [Questa volta neppure gli ambienti ufficiali hanno tentato di coprire con un mantello ottimistico gli screzi fondamentali] <I buoni usi diplomatici non permettono si proclami apertamente un fallimento, ed alla fine le conversazioni hanno evitato l'urto diretto, indugiandosi su questioni di dettagli: in realtà però, a Lancaster House si è lottato duramente e senza vincitori per quello che può chiamarsi "il" confine europeo,> e le cupidigie sullo scarno bottino di guerra, riducentesi alle colonie italiane, si sono nascoste a malapena sotto il velo, ormai sottilissimo, dell'amministrazione fiduciaria [delle Nazioni Unite]. È un sintomo grave, soprattutto trattandosi della prima vera e propria conferenza di pace, e già la stampa londinese, sentendo da vicino la pesantezza dell'ambiente, ha ricordato le giornate astiose del 1919.

Come si spiega questo stato di cose? La causa esterna è indubbiamente la fine del conflitto mondiale, che ha portato alla luce molti problemi procrastinati dalla necessità di una concordia militare, ma le cause intime risalgono ai rapporti reciproci di forza fra le tre grandi potenze, ed alle loro vicendevoli direttive politiche. In tanto quindi nei risultati della Conferenza di Londra si riscontra una [maggiore inconcludenza che per il passato] <situazione particolarmente critica>, in quanto un [più grande] numero <grande> di problemi è stato affrontato da nuovi punti di vista e con differenti energie. Non già che negli anni passati, in cui si parlava più di ora della Carta Atlantica e della comunità di nazioni, quasi fossero davvero realtà operanti sul piano politico, le brutalità imperialistiche e l'urto di interessi tra alleati avessero cessato di essere vivi: allora però si poteva notare, anzitutto, una maggiore duttilità nell'atteggiamento britannico, che portò tra l'altro, come episodio più saliente, al cedimento anglo-americano sulla questione polacca. Churchill fungeva da mediatore nel contrasto russo-americano, mantenendo sin dov'era possibile alla Gran Bretagna la sua libertà di giocare tradizionalmente sull'equilibrio. Il nuovo governo laburista invece, che si era presentato propagandisticamente come propugnatore di una solidarietà socialista paneuropea, all'atto pratico si schiera, senza farne mistero, dalla parte americana. Il fondamento della cosa non va tanto ricercato in una divergenza nelle direttive dei due governi britannici, quanto nell'origine stessa di tale divergenza, cioè in una mutata distribuzione di potenza tra i vincitori della guerra.

È indubitabile che la posizione degli alleati anglo-sassoni di fronte all'Unione Sovietica si sia notevolmente rafforzata in questi ultimi sei o sette mesi, dall'occupazione americana di Lipsia al crollo rapido ed inatteso del Giappone. Da principio i russi, mentre i loro eserciti dovevano sostare ansimanti sull'Oder e la Neisse, si lasciarono prendere dal nervosismo, a giudicare dall'atteggiamento della stampa sovietica nelle ultime settimane di guerra in Europa. Un turbamento di equilibrio si era verificato, e ne risentì la già faticosissima Conferenza di San Francisco. Per la Russia, ad ogni modo, quello era il momento tanto atteso, in cui, mentre gli anglo-sassoni continuavano ad essere duramente impegnati in Estremo Oriente, essa poteva finalmente manovrare a suo agio, con le armi al piede - ma neppure allora tale posizione diplomatica di privilegio ebbe modo di venir usufruita per il precipitare improvviso degli avvenimenti, che la costrinsero ad un intervento armato in extremis. [Dopo di allora] <Nel frattempo>, senza che gli ambienti ufficiali amino parlarne, un'arma [terribile e] decisiva <di pressione>, almeno nella situazione contingente, è <pervenuta> nelle mani degli americani; la paradossale bomba atomica, il cui spettro anche i giorni scorsi aleggiava paurosamente nei saloni di Lancaster House.

La determinazione delle due zone di influenza, quale fu concordata presumibilmente a Yalta in un momento di depressione per gli anglo-sassoni, doloranti per la controffensiva di Von Rundstedt e sotto l'impressione fresca dell'ultima cavalcata russa, mi pare sia rimessa in discussione dagli Stati Uniti. La linea di demarcazione Amburgo-Trieste-Salonicco, di cui mai si era parlato apertamente, ma che di fatto è andata [lentamente] delineandosi <poco a poco>, con qualche zig-zag, non risulta ora affatto gradita a Washington, dove non ci si rassegna alla sovietizzazione di Romania, Bulgaria, Ungheria, fors'anche dell'Austria, e si [parla di] <vuol mantenere> un controllo internazionale sul Danubio. Di fronte a questa minaccia di offensiva, l'Unione Sovietica ha tenuto a Londra un atteggiamento molto deciso. La diplomazia russa non ama le souplesses occidentali, ed ha giocato anche questa volta sulla rudezza e su una strategia di sorpresa. L'attacco anglo-sassone è stato prevenuto da un'abile controffensiva, ché altro non è la sensazionale richiesta d'insediamento nelle colonie italiane. Indubbiamente tale strategia presuppone la conoscenza di uno schieramento britannico al fianco degli Stati Uniti, perchè se i russi avessero sperato in un appoggio inglese, certo non avrebbero arrischiato una mossa tanto offensiva per Londra - pur non essendo necessario pensare ad una improvvisazione di Molotov, dal momento che già gli ultimi due mesi avevano dato abbastanza chiaramente ad intendere la futura posizione del governo laburista. L'Unione Sovietica non intende affatto di rinunciare ai risultati conseguiti a Yalta, per quanto non sia da credere essa voglia ottenere molto di più, ed aspiri seriamente, per esempio, alla Tripolitania. Assicuratasi la saldezza del suo fronte balcanico, con il colpo di fulmine del trattato commerciale con l'Ungheria, e non solo con la tutela, ma con la pretesa si considerino alleati i nuovi governi di Romania e Bulgaria, essa ha sferrato il suo attacco al sud-est, dove la demarcazione è ancora incerta, e senza sfiorare la questione greca, "tabù" inglese, lasciando parimenti nell'ombra il problema degli Stretti, su cui continua a pesare un silenzio gravido di tempesta, si è insinuata alle spalle, in pieno Mediterraneo. La manovra di aggiramento è manifesta, e la Turcia non deve dormire sonni tropo tranquilli. <Di conseguenza> la finta di Molotov non è soltanto difensiva, dato che il falso obiettivo ne nasconde altri, più vicini e più seri.

L'urto è stato così particolarmente forte, e tanto più preoccupante, in quanto questa volta gli americani danno l'impressione di voler giocare a fondo sulle loro carte, di fronte a qualsiasi rigidità slava. In tali condizioni, si è tentato almeno di abbozzare una soluzione, neppur questa del resto del tutto chiusa, per la questione giuliana, la più appariscente sul tappeto, ma non certo la più importante. [Dietro a tutto poi, trapelante per ora solo a tratti,] <E non è ancora stato affrontato, se non per assaggi, il problema in cui si cela> la chiave della potenza mondiale: <la sistemazione del>l'Estremo Oriente.

Archivio Giorgio Colli, Firenze.

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